LA TERZA FONDAZIONE (1990) Quando nel 1990 don Piero Stavarengo, il don Gioan de L’erbo dla libertà, chiede a Gamna di aiutarlo a vivacizzare le celebrazioni liturgiche della Pasqua e del Natale, si avverte un primo, significativo, spiraglio di rinascita artistica, dopo la fine malinconica seguita al Don Bosco. Nascono da questa collaborazione La vijà ed Natal nel 1990 e Ufficio delle tenebre (1991), via crucis suggestiva, vissuta dalla parte della Madonna Addolorata che, posta con tre donne su un carro trainato dai Battuti Neri, percorre le quattordici stazioni, incontrando altrettante spine dolorose del mondo contemporaneo1. Il ritorno alle scene permette di esperire nuovamente il “senso del paese”, che Cantoregi aveva contribuito a costruire e che si dimostra ancora intatto nel caloroso tributo d’affetto del pubblico. È, inoltre, l’occasione per rinnovare i ranghi degli attori, inserendo nella compagine alcuni ragazzi legati alla pubblicazione locale “Arcobaleno”. Tra questi vi è Marco Pautasso, che dai successivi spettacoli collaborerà nell’ideazione, nella scrittura e nel coordinamento, diventando una delle pedine fondamentali della terza fondazione e un elemento determinante per la crescita e la conferma della Cantoregi. Il ringiovanimento complessivo produce la scelta di un percorso di confronto culturale con modelli letterari e cinematografici provenienti da contesti diversi, vivificato dalla sperimentazione di nuove e talora inusitate tecnologie. Il rapporto con don Stavarengo continuerà fi no alla nomina di quest’ultimo a cappellano del carcere delle Vallette di Torino e produrrà altri due “eventi pasquali”: Come un’ultima cena del 1992 e Mandatum (In coena Domini) dell’anno successivo. I due spettacoli, ispirati alla liturgia del Giovedì Santo e basati sulla lettura di testimonianze di persone comuni, si possono considerare l’uno la continuazione dell’altro: in Come un’ultima cena si tratta dei disagi sociali del mondo contemporaneo (solitudine, abbandono, ingratitudine, sfratti, ecc…); in Mandatum il discorso s’incentra sul tema del lavoro e sulla necessità di «non abitare il silenzio», cioè la chiusura individualistica che la società, anche tramite l’attività lavorativa o i sistemi di comunicazione di massa, spesso impone alle singole persone e ai loro cuori. LA MALORA (1991) Per completare la “terza fondazione” s’impone un celere ritorno alla tradizione consolidata dell’autodramma, al fi ne di rinnovare la consuetudine settembrina del teatro in piazza. Con poco tempo a disposizione, si allestisce allora una riduzione de La malora, adattando un copione andato in scena a Pancalieri nel 1988 con la regia di Gamna. Il capolavoro di Fenoglio offre una molteplicità di spunti cari al discorso storico-sociale di Cantoregi, dall’ambientazione rurale (rappresentata nel suo rosario quotidiano di durezze, stenti e fame), alla figura del protagonista Agostino, emblema antico e moderno di lavoratore precario. Allo scopo di favorire la penetrazione della letteratura nell’orizzonte popolare della Cantoregi, vengono selezionati alcuni episodi dell’originale fenogliano e inseriti in una cornice fittizia, quella dell’ospizio (altro locus della Cooperativa), dove un giovane infermiere a tempo determinato, Lorenzo, incontra Fede ormai anziana e ne raccoglie le memorie. La cornice così congegnata, attraverso la specularità di Agostino con il suo doppio contemporaneo Lorenzo, permette l’instaurarsi di un dialogo continuo tra presente e passato; d’altra parte, la compenetrazione tra letteratura (il piano del libro) e la vita (il piano delle vicende rappresentate) si realizza attraverso il ricorso alla memoria di Fede, che evoca il fantasma del giovane garzone e ne riorganizza cronologicamente le vicende, suscitando un ricordo lungo fino al presente. Fede racconta, in una notte insonne, le sue memorie all’infermiere dal profondo di due lontananze: quella spaziale dell’ospizio e quella temporale rispetto alla sua gioventù. La separazione viene rappresentata scenograficamente isolando lo spazio del dialogo memoriale nell’orchestra dell’emiciclo, ricavato nella piazza del Duomo, mentre sul sagrato si susseguono i quadri recitativi. La malora è uno spettacolo a tratti crudele nella rappresentazione della sconfi tta dei tanti personaggi che animano la vita di quello spaccato di Langa, sconfitta che distende la sua ala fino ai sopravvissuti. Gli efficacissimi monologhi di Eugenio Vattaneo dànno forza a un catalogo indimenticabile di personaggi, da Tobia Rabino (un Dino Nicola quanto mai intenso, l’incarnazione perfetta, con la sua violenza e le sue ruvide aspirazioni, della durezza di quel mondo), a Fede, che ribadisce l’assenza dell’amore da quell’orizzonte di pena e di fatica, con punte di triste dolcezza, come quando ricorda una «bottiglia di odore», regalatale da Agostino, e confessa a Lorenzo: «L’ai tenulu pr sempre / l’prim regal d’mia vita da poura / e l’prfum, varda Renzo / l’è sparì arlung d’j ’agn / cuma fusa l’amur». A corollario di uno stato di grazia ritrovato, le musiche di Riccardo Allione ed Eraldo Sommacal. Il risultato complessivo è straordinario e irripetibile, come testimoniano queste parole di Gian Luca Favetto: «C’è qualcosa di nobile e struggente nel religioso modo di fare teatro della Cantoregi, c’è la capacità di stupirsi e la voglia di faticare, c’è l’ambizione di recuperare il dialetto come forte segno espressivo», che racchiudono interamente il senso di un progetto teatrale e il suo tentativo di riaffermarsi. LE SIGNORINE SETTEMBRE PROVANO IL GELINDO (1991) L’iperattivismo del 1991 culmina, durante la celebrazione del Natale, con la rappresentazione di Le signorine Settembre provano il Gelindo. Diversamente da La Malora, questa rielaborazione della favola tradizionale di Gelindo , il pastore piemontese che, viaggiando fino alla capanna di Betlemme, assiste alla nascita di Gesù in Palestina, si può veramente defi nire un autodramma. Difatti, pur mancando la dimensione collettiva, temi e personaggi appartengono di diritto alla cerchia delle grandi figure della Carignano d’antan, di quel paese vivace e teatrale nel quale si era formata la vocazione artistica di Vincenzo Gamna. Il copione integra gli episodi del Gelindo con il ricordo romanzato dei presepi allestiti dalle tòte Valente, attraverso il ricorso a una situazione già sperimentata precedentemente con successo: la prova di uno spettacolo. Il contenitore metateatrale diventa occasione per l’intrecciarsi di personaggi e psicologie differenti e per la creazione di sottotesti paralleli (come ad esempio il furto del Bambino del presepe), tutti convergenti nell’happy end finale. Protagoniste dello spettacolo sono le tòte Settembre, alter ego delle sorelle Valente, proprietarie della drogheria “La carignanese”, animatrici negli anni Trenta della Processione della Santa Infanzia e dell’allestimento annuale del presepe. Gamna e Longo le ripropongono connotando due figure caratterialmente diverse e complementari, quella della giovane, testarda e rigida Bertilla e quella della più anziana e placida Pasquina, rispettivamente le ottime Carla Ostino ed Elsa Abrate. Nell’alternarsi di realtà e finzione, di personaggi che recitano in piemontese e parlano in italiano, sui quali spicca Orazio Ostino, capace di tratteggiare, grazie alla sua voce profonda e all’espressività mimica, un Gelindo ieraticamente popolare, non mancano le scene memorabili, a partire dalla prova dell’annuncio della nascita di Gesù da parte del sacrestano (Dino Nicola) nel ruolo dell’angelo, degna di essere collocata in una qualsiasi antologia ideale del teatro in piemontese. IL FREDDO SILENZIO (1992) Lo sperimentalismo dei primi anni Novanta tocca il vertice ne Il freddo silenzio, presentato nel periodo natalizio del 1992. L’opera è definita dal programma di sala «uno strappo espressivo forse, che ha il sapore insieme acre ed irresistibile della scommessa, ma scientemente perseguito nella volontà di dilatare i confi ni della propria esperienza. Rischiando». Il rischio è evidente: in primis per il tentativo di portare in teatro le tematiche intimiste e l’etica personale di un maestro del cinema come Kieslowski; in seconda istanza per l’ambientazione tecnologica, ricavata separando lo spazio in due stages dietro cui campeggia un enorme telone, il megaschermo di un computer, che crolla al cadere delle certezze scientifi che del padre. Un’uscita dalla coralità solita, per tentare quasi la via del “teatro da camera”. La vicenda non manca di spunti interessanti: il conflitto tra fede e ragione è un tema la cui portata è paragonabile a quella delle grandi riflessioni degli esordi; tuttavia il computer, elevato a feticcio di una modernità impersonale e intenta a dominare razionalmente la realtà, non è così facilmente sostituibile dal crocefisso che campeggia a fine spettacolo sulle rovine dello schermo devastato. Piuttosto il calcolatore testimonia l’ansia di certezza che pervade il presente come il passato. In più la tecnologia – e qui siamo nel più classico dei temi culturali della Cantoregi – si oppone alla memoria. Il piccolo protagonista vive all’incrocio di due venti contrapposti: quello che spira dal padre, attraverso la scienza, verso il futuro e il controllo asettico ma programmato della vita, e quello che giunge dal passato, dalle parole della nonna, la cui memoria vuole insegnare la vita attraverso se stessa e le sue alternanti, spesso dolorose, vicissitudini. D’altronde, la morte del fanciullo, i cui calcoli sulla tenuta del ghiaccio del lago invernale vengono tragicamente smentiti dalla morte per annegamento mentre sta pattinando, esprime il medesimo sgomento della perdita di civiltà prefigurato in ’Na scudela ’d fioca o ne Le man veuide. Il finale del testo, l’uso avveniristico del computer, la trasformazione della coralità sono i temi su cui maggiormente insiste la critica, che formula giudizi altalenanti tra il plauso e la nostalgia. Di là dai giudizi, bisogna però riconoscere a Gamna, Pautasso e Vattaneo, il merito di essersi messi in discussione fuori degli schemi consolidati, per dimostrare che il loro teatro, anche solo per la capacità inalterata di sollevare un dibattito culturale, è e vuole essere ancora vivo e guizzante. Tratto dal libro “In cerca di un paese” di Salvatore Gerace e Erika Monforte; Ed.SEB 27 ; 2006