Camminare Insieme

PRIMA: Carignano, Piazza S. Giovanni, 18 settembre 1993. Spettacolo dedicato al 25° anno di ordinazione sacerdotale di Don Piero Stavarengo REGIA: Vincenzo Gamna INTERPRETI: Corale Carignanese, C.R.I., Gruppo Musica, Polisportiva, Società Ciclistica, Vigili Del Fuoco e la gente di Carignano

Mandatum (in coena domini)

PRIMA: Carignano, ex Lanififi cio Bona, 9 aprile 1993 TESTO: Elaborazione di Vincenzo Gamna e Marco Pautasso, basata su testimonianze vere, rese da persone di Carignano REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Scelte a cura di Vincenzo Gamna e Marco Pautasso COSTUMI: Luciana Bodda e Giuliana D’Alberto INTERPRETI: Attori di Carignano (gli autori delle memorie), Dario Geroldi (lettore) Libretto “Ogni uomo è solo, e i nostri dolori sono un’isola deserta. Non è una buona ragione per non consolarsi, stasera, mentre si spengono i rumori della strada, con delle parole”. Albert Cohen Con Mandatum, una drammatizzazione della liturgia della lavanda dei piedi, la cooperativa Progetto Cantoregi rinnova il tradizionale appuntamento con la sacra rappresentazione pasquale e trae ragione per un nuovo incontro con la gente di Carignano, ancora una volta chiamata a raccontarsi. Due anni or sono Ufficio delle tenebre, che attraverso una rivisitazione non convenzionale della Via Crucis aveva proposto un itinerario nella sofferenza e fornito occasione per ragionare dei quotidiani conflitti che ci angustiano. Lo scorso anno Come l’ultima cena, che radunando intorno ad un desco povero dodici anziani con le loro ordinarie storie di solitudine, di emarginazione, di disperazione, aveva offerto lo spunto per raccontare della difficile condizione della terza età nella nostra società. Quest’anno è invece la volta della liturgia della lavanda dei piedi ad essere pensata e composta drammaturgicamente. L’intuizione è la medesima: un momento della Settimana Santa assunto come pretesto per immergersi nel presente, per scavare nella realtà, per suscitare riflessioni comuni su un tema di scottante attualità. Scelta obbligata, di questi tempi, il lavoro e la crisi occupazionale. Come nella tradizione, sono invitati alla cerimonia della lavanda dei piedi dodici “apostoli”: sono chiamati, ciascuno preceduto da canti di lavoro di matrice popolare, a testimoniare della propria esperienza legata al lavoro, nel tentativo di rendere meno vaghi, di meglio definire termini altrimenti astratti come disoccupazione, cassa integrazione o lavoro nei campi. E nell’intento soprattutto di riaffermare la centralità della pratica lavorativa nella esistenza umana, nel significarne la grandezza anche nelle sue dimensioni più umili ed oscure, e nel sancire il diritto alla piena occupazione come conseguimento di un ideale di giustizia sociale. E per proporre un “nuovo comandamento”, un mandatum appunto, facendo proprio il contenuto dottrinale del messaggio evangelico: quell’atto di carità simboleggiato dal rituale della lavanda dei piedi come scelta individuale irrinunciabile, per intraprendere il necessario percorso di salvazione.

Il Freddo Silenzio

PRIMA: Carignano, Chiesa della Misericordia, 26 dicembre 1992 TESTO: Vincenzo Gamna, Marco Pautasso ed Eugenio Vattaneo, dal Decalogo di Krisztof Kieslowski REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: scelte a cura di Marco Pautasso COSTUMI: Luciana Bodda, Giuliana D’Alberto SCENOGRAFIA: Koji Miyazaki COREOGRAFIE: Maria Grazia Negro INTERPRETI: Dario Geroldi (il padre), Andrea Pezzi (Paolo), Rita Fagnani (la nonna) Libretto Un uomo razionale, un docente universitario, ripone nella scienza fiducia incondizionata di poter conoscere e controllare la realtà, e superare così la casualità che governa speso le esperienze umane. Col figlioletto Paolo, che ha dispensato da un’educazione cattolica, vive un’intesa molto complice, fondata anche sulla passione comune per l’elaboratore elettronico. E il computer irrompe nel loro mondo con la possanza di una nuova divinità, cui demandare non soltanto la soluzione dei piccoli problemi del quotidiano, ma l’intera pianificazione esistenziale. Ad incarnare la prospettiva opposta, quella religiosa, ed accentuare così anche in termini generazionali la contrapposizione fede/ragione, è invece la nonna, che attraverso l’emozione garbata della memoria cerca di motivare al nipote le ragioni altrimenti inesplicabili del proprio credere. Ed è con l’indicazione di un cammino di speranza che tenta di confortare Paolo nel suo piccolo travaglio esistenziale, nell’affacciarsi angoscioso e d’inaspettato nella sua vita di sole risposte di un perché inquietante, della Domanda sul significato dell’esistere. Ma ciò che razionalmente si crede non possa mai avvenire al contrario accade, e mentre un coro di gente comune intona ossessivamente un rosario di frasi premonitrici, il rassicurante stato di cose che il padre ha edificato sulle proprie convinzioni scientifiche si sfalda. Viene sconvolto dal balenare improvviso di segnali avversi ed infausti, da premonizioni irrazionali che preparano all’imprevedibile, all’imponderabile, e che finiscono per sconfessare ogni presunzione razionalista. Ed è così che il latte, che è nutrimento di vita ed ha il colore dell’innocenza, senza ragione apparente, diviene sinistro presagio di morte. E’ il caso: indecifrabile, crudele, terribile, nel suo muto , gelido apparire. E’ il freddo silenzio, che forse solo il calore di una presenza tutelare può infrangere, o stemperare. Una presenza che, come afferma Kieslowski, può definirsi angelo, Signor Destino, un amico che non c’è più. Che ci osserva e ci sta vicino, anche se apparentemente tace. Ma che dona la sensazione di non essere mai del tutto soli. Il freddo silenzio è il racconto della dignità di due scelte, di due diverse concezioni di vita. Di chi cerca e trova nel dubbio la forza di guardare dentro di sé per rincorrere la Verità. Di chi vive la contraddizione dell’esistere per crescere. Sempre. Articolo tratto da “La Stampa” La cooperativa Cantoregi ne “Il freddo silenzio” Ateismo ghiaccio dell’anima secondo il teatro popolare L’ateismo, per quanto rispettabile, è il vicolo cieco dell’anima: infatti non conosce speranza e non allevia la disperazione. Questa tesi è il motiv ispiratore de ” Il freddo silenzio”, il nuovo spettacolo della cooperativa Cantoregi in scena fino a Domenica nella chiesa della Misericordia. Come si vede, non siamo più nell’ambito dell’autodranmma, di quelle narrazioni popolari, epiche povere con cui gli abitanti di Carignano, guidati da Vincenzo Gamna hanno messo in scena se stessi e la propria storia. Siamo ormai nel vivido territorio del teatro di idee, per di più derivato da una matrice illustre, e cioé dal primo episodio del “Decalogo” di Kieslowski. Ancora un passo e questo teatro (tuttora fondato sulla partecipazione popolare e sul volontariato) sconfinerà nel prodotto d’autore. E’ augurabile? Diviso in 18 quadri, “Il freddo silenzio” ci presenta un figlio e un padre felici dell’immanenza della loro vita. L’uomo è uno scienziato e il piccolo assorbe inevitabilmente il suo universo mentale. Hanno per interlocutore il computer, al quale chiedono persino se sia il caso di pattinare sul ghiaccio. La macchina sembra avere perciò un potere assoluto, che tuttavia non tiene conto delle minuscole, impercettibili variabili di cui è intrisa l’esistenza. E così il ghiaccio dato per solido si spacca, inghiottendo il bambino. Disperazione somma, che resterebbe tragicamente cupa se al padre non apparisse la luce rivelatrice del Cristo. Sui due praticabili, che a diversa altezza, ospitano l’azione scenica, fra guglie di plastica bianca e azzurrina che ricordano stallagmiti di ghiaccio, il racconto si snoda per scene rapide ed essenziali, cucite insieme dall’apparizione dolce e misteriosa di un angelo che esegue al sax “Summertime” di Gershwin. Qui Dario Geroldi e il piccolo Andrea Pezzi vivono l’esemplare percorso della loro storia, circondati con discrezione dalla comunità: i bambini che escono da scuola o pattinano sul lago ghiacciato; i vigili del fuoco che, con corde e pertiche cercano il corpo dello sfortunato ragazzo; una trepida nonna, che incarna la coscienza cristiana del dramma. Attori bravi e figuranti delicati. Ma non è questo il merito grande di uno spettacolo oggettivamente ben fatto e di sicura presa sul pubblico. Il fatto notevole è lo spirito di questa e delle precedenti realizzazioni, quel voler far teatro con la sola ricchezza della fantasia. Osvaldo Guerrieri

Come un’ultima cena

PRIMA: Carignano, Piazza S. Giovanni, marzo 1992 TESTO: Lettura di Testimonianze REGIA: Vincenzo Gamna.

Le signorine Settembre provano Il Gelindo

PRIMA: Carignano, Chiesa della Misericordia, 22 dicembre 1991 TESTO: Vincenzo Gamna e Aldo Longo REGIA: Vincenzo Gamna COREOGRAFIE: Maria grazia Negro COSTUMI: Luciana Bodda, Giuliana D’Alberto INTERPRETI: Elsa Abrate, Carla Ostino (le sorelle Pasquina e Bertilla Settembre), Orazio Ostino (Gelindo), Dino Nicola (il sacrestano), Gionni Ebianne (Erasmo), Nuccio Cantamutto (l’antiquario) Libretto Uno spettacolo per ricostruire i luoghi del passato, e perpetuarne le storie, recuperando il dialetto che muore, perché con lui non abbia a morire la memoria. Uno spettacolo per segnare un altro momento di ricerca delle ragioni del nostro presente. Uno spettacolo per favorire la tenera grazia del ricordo. Al pastore Gelindo, caratteristica maschera della nostra regione, di notorietà minore rispetto a Gianduja, ma a ben vedere più di questi rappresentativo della semplicità della fede, della bonarietà, del buon senso tipici della gente piemontese, si lega una sacra rappresentazione di ambientazione natalizia e di autore anonimo, dalla chiara matrice popolare. La genesi di questo dramma popolare pare debba ricondursi al buon tempo antico, con ogni probabilità al sedicesimo o diciassettesimo secolo: tramandatosi oralmente di generazione in generazione, soltanto sul finire del secolo scorso il Gelindo è entrato nella storia della letteratura piemontese consolidandosi in un testo scritto – parte in vernacolo, parte in lingua -, di cui esistono a tutt’oggi più versioni, tra loro affini, ma non del tutti coincidenti. Nato dal popolo e perciò votato per sua destinazione naturale ad una fruizione popolare, il Gelindo si configura a tutti gli effetti come una fiaba natalizia, pregna di buoni sentimenti, ed afferente una visione della vita forse elementare ma certamente efficace, dove la sofferenza, la tribolazione, non è mai fine a se stessa, ma è transito necesario per il conseguimento della felicità eterna, dove insomma, l’esistenza terrena è guidata ed illuminata dalla presenza rassicurante del trascendente, dell’assoluto. Come potrebbe d’altronde etichettarsi se non come fiaba la vicenda improbabile, inaudita – anche se non priva di connotazioni poetiche – di un pastore sceso dal natio Monferrato a Betlemme per farsi “scrivere”, e a vendere ricotta? Ed è appunto l’impianto favolistico a rivelarsi espediente indispensabile per realizzare la fusione altrimenti impossibile tra la Sacra Famiglia e la famiglia rusticana di Gelindo, poste sullo stesso piano. Apologo popolare che possiede l’incanto dell’impossibile, consegnato per consentire una leggibilità semplice e diretta del mistero della Natività, il Gelindo viene riproposto dalla Cantoregi in una veste ridotta, sfrondato ed intrecciato ad una vicenda da strapaese, ambientata verosimilmente sul finire degli anni ’30, ma forse fuori dal tempo. Ne sono protagoniste le Sorelle Settembre, Pasquina e Bertilla, nubili entrambe, che sublimano la loro esigenza d’affetti impegnandosi anima e corpo in una inesausta attività di volontariato in ambito parrocchiale. Ed è così che, approssimandosi le festività natalizie, si improvvisano registe e, con l’ausilio dei compaesani, mettono in piedi uno spettacolo, il Gelindo appunto, allorchè la comparsa improvvisa sotto mentite spoglie di una improbabile reincarnazione di Erode, smanioso di impadronirsi delle preziose statuette lignee del presepe di loro proprietà, sembra poter pregiudicare l’esito della rappresentazione… Articolo tratto da “La Stampa” Vincenzo Gamna rappresenta al Macario uno spettacolo sulla Natività Gelindo, due zitelle e il bambino Come un antiquario può essere uguale a Erode Vincenzo Gamna è un benemerito. Da anni trasforma il suo genuino interesse per le tradizioni popolari in avvenimenti teatrali. Una volta era il teatro in piazza, a Carignano: colossali operazioni che portavano in scena centinaia di persone; poi arrivarono gli spettacoli più raccolti, ma non meno complessi e meditati. Adesso Gamna è arrivato al Gelindo, ad personaggio che con Gianduja occupa la zona più affettuosa del folklore piemontese. Al Macario, e con la collaborazione drammaturgica di Aldo Longo, Gamna rappresenta Le signorine Settembre provano il Gelindo. “Il Gelindo” è uno spettacolo sulla Natività, una fluviale narrazione delle vicende fiorite attorno alla venuta di Gesù sulla terra, espresse in un dialetto arcaico, di complessa tessitura sintattica. Gamna e Longo hanno inserito parte di questa epopea all’interno di un’altra storia, quella delle due sorelle Settembre che con buona volontà, ingenuità e fervore, preparano in parrocchia la rappresentazione del “Gelindo”. Siamo nello schema del teatro nel teatro; ma che volete?, sarà per l’affettuosità dell’operazione, sarà per la struggente malinconia delle sorelle e delle figurine che le circondano, non ci sentiamo per nulla disturbati. Se poi consideriamo che uno dei personaggi di contorno, quello dell’antiquario che vuole impadronirsi con l’inganno della statuina di Gesù, viene assimilato ad Erode, allora ci accorgiamo che l’espediente del teatro nel teatro acquista un profondo valore espressivo, crea un legame strettissimo tra una possibile contemporaneità e un lontano passato. E così, in una sacrestia ingombra di scale e di panneggi, si avvia un gioco teatrale che oscilla tra vita e fantasia, tra concretezza e ritualità. Le sorelle (Elsa Abrate e Carla Ostino) sono deliziosamente appassite. Una è svanita, l’altra è chiusa in un carattere spigoloso. Preparano la recita con un sacrestano piegato ad angolo retto, tremebondo come certi vecchi della Commedia dell’Arte (Dino Nicola). Predispongono un gioco nel quale entrano i personaggi e i figuranti di una rappresentazione dichiaratamente e sontuosamente popolare, che ha i suoi poli d’attrazione nella Sacra Famiglia e nella famiglia ruvidamente terragna di Gelindo (Orazio Ostino). Intorno a tutti fluttua la festa mobile degli angeli, dei pastori, dei Magi, dei contadini, dei servitori. Osvaldo Guerrieri

La Malora

PRIMA: Carignano, Piazza S. Giovanni, 13 Settembre 1991 TESTO: Vincenzo Gamna e Eugenio Vattaneo, da La malora di Beppe Fenoglio REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Riccardo Allione e Eraldo Sommacal COSTUMI: Cristina Da Rold e Silvia Nebiolo, Luciana Bodda e Giuliana D’Alberto SCENOGRAFIA: Carlo Arduino COREOGRAFIE: Maria Grazia Negro INTERPRETI: Rita Fagnani (Fede), Alessandro Albanese (Agostino), Orazio Ostino (Giovanni Braida), Elsa Abrarte (Melina Braida), Dino Nicola (Tobia Rabino) Libretto La scelta di un testo come La Malora di Beppe Fenoglio, per realizzare una drammatizzazione popolare che raccontasse una storia “nostra” è stata naturalmente facile e sicuramente felice. Più difficile invece, farne una drammatizzazione allo stesso tempo semplice e significativa per tutti. Rappresentare la storia del giovane Agostino mandato, per povertà, a fare il garzone nella cascina del Pavaglione è come proporre ad una certa generazione di persone di ripercorrere, con la memoria, la loro stessa storia. Ma per i giovani e gli adulti al di sotto di una certa soglia, che significato può avere, oltre che quello di documentare un passato ormai finito? Da questa domanda, che ci siamo posti, nella prima genesi di questo spettacolo, è scaturita l’unanime constatazione dell’attualità di un personaggio come il protagonista del romanzo di Fenoglio. E l’attualità di Agostino consiste nell’essere un lavoratore senza contratto definito, né precise garanzie, un precario diremmo oggi; ed egli è passionalmente cosciente di essere l’ultima ruota di un carro guidato da altri, ma incapace di reagire ad una tradizione di ingiustizia che, nel mondo contadino piemontese, è stata tante volte subita con l’aiuto di una religiosità spesso più repressiva che liberatoria, seppure carca di sublimante poesia almeno nella memoria. Abbiamo allora voluto sottolineare questo aspetto attuale del personaggio, creandogli un doppio: Lorenzo, un lavoratore precario di oggi che, facendo una sostituzione in un ospizio, incontra la vecchia Fede, effimero amore di Agostino al Pavaglione di tanti anni fa. E’ lei che parlando del suo primo “moroso” mai scordato ne evoca il fantasma, visivo e sonoro, e da il via al racconto che, dopo una breve premonitrice ouverture che ci richiama al clima di religiosa povertà dell’epoca, comincia a narrare la “microstoria” del nostro garzone. Articolo tratto da “La Repubblica” Semplice e suggestiva “Malora” a Carignano con la Cantoregi Così per Fenoglio si ripete il miracolo del teatro in piazza Carignano, venerdì sera. Il paese, non il teatro. La piazza del duomo come palcoscenico, la chiesa come fondale, due lunghe quinte fatte di canne di fiume. “La malora” di Beppe Fenoglio come storia da ricomporre in quadri. Un’intera comunità di persone, 150 persone impegnate a raccontarla con immagini e parole. Il miracolo di un paese che fa teatro si ripete grazie alla passione e alla tenacia della Cooperativa Progetto Cantoregi guidata da Eugenio Vattaneo e Vincenzo Gamna che quest’anno ha scelto di tradurre in rappresentazione popolare l’aspro, bruciante racconto dello scrittore di Alba. Gli ha dato sostanza scenica con una semplicità che, se pur a tratti appesantita da una superflua zavorra didattica, risulta efficace nel ricostruire suggestive visioni foriere di meraviglia. Visioni vere e necessarie di cui spesso non vi è traccia negli spettacoli di un’intera stagione. C’è qualcosa di nobile e struggente nel religioso modo di fare teatro della Cantoregi, c’è la capacità di stupirsi e la voglia di faticare, c’è l’ambizione di recuperare il dialetto come forte segno espressivo. Potrete rendervene conto questa sera o domani andando a Carignano. In poco più di due ore e in 24 quadri si srotola la vicenda di Agostino mandato a servizio al Pavaglione per una sacco di patate e una camicia. Una storia di Langa fatta di miseria e di speranze che Gamna e Vattaneo giocano tra passato e presente, fra gli anni trenta e i giorni nostri, tra nostalgia e fatalismo, sul filo della memoria della vecchia Fede, fugace amore di Agostino in gioventù, oggi costretta in un ospizio.Una voce fuori campo riporta la lingua scabra di Fenoglio, a cominciare dallo splendido inizio: “Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre prendeva la sua prima acqua sottoterra”. I quadri che via via si compongono in scena sembrano il naturale riflesso. Una lingua caparbiamente costruita, quella di Fenoglio, per il quale scrivere è suonare con la penna una melodia fatta di cose oltre che di parole. Che la sua musicalità venga tradotta in immagini forti ed essenziali è il pregio dello spettacolo. Che a volte l’azione ripeta ciò che la voce fuori campo ha appena descritto è il difetto. Sopportabile, comunque. Gian Luca Favetto

Ufficio delle tenebre

PRIMA: Carignano, Piazza S. Giovanni, 29 marzo 1991 TESTO: Aldo Longo e Vincenzo Gamna REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Eraldo Sommacal COSTUMI: Cristina Da Rold e Silvia Nebiolo SCENOGRAFIA: Carlo Arduino e Giuseppe Reale COREOGRAFIE: Maria Grazia Negro INTERPRETI: Mariangela Sardo, Elsa Abrate, Rita Fagnani (le Madri), Nuccio Cantamutto, Stefania Cappellari, Franca Pautasso (lettori)

La vijà ed Natal

PRIMA: Carignano, Duomo, 24 dicembre 1990 TESTO: Vimcenzo Gamna e Aldo Longo REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Eraldo Sommacal COSTUMI: Cristina Da Rold e Silvia Nebiolo SCENOGRAFIA: Carlo Arduino COREOGRAFIE: Maria Grazia Negro INTERPRETI: Rita Fagnani, Rita Costamagna, Piera Meinardi, Elsa Abrate, Carla Ostino, Orazio Ostino, Lazzaro Nicola, Lorenzo Tonda Turo, Carlo Arduino, Paola Bertello, Renato Pautasso, Miriam Pereira

Don Bosco

PRIMA: Asti (Festival Teatrale), Cortile del Palazzo del Collegio, 19 luglio 1988 TESTO: Vincenzo Gamna e Aldo Longo REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Raf Cristiano e Vittorio Muò COSTUMI: Eugenio Guglielminetti SCENOGRAFIA: Eugenio Guglielminetti COREOGRAFIE: Carla Perotti INTERPRETI: Duilio Del Prete (Don Bosco anziano), Bruno Maria Ferraro (Don Bosco giovane), Dario Geroldi (Matteo), Dino Nicola (Sberla) Articolo tratto da “La Stampa Sera” Presentata ad Asti l’opera di Aldo Longo e Vincenzo Gamna Una ballata per Don Bosco Spettacolo cucito dalla voce di Duilio del Prete Una stampa antica prende forma davanti agli occhi del pubblico. Napoleone in esilio. In quel tempo (il 16 agosto 1815) nasceva Don Bosco, da Francesco e Margherita Occhiena – annuncia una voce -, una luce di speranza in un’epoca di sfruttamento… corse di ragazzi, piccole zuffe, tocchi di coreografie e giochi di polvere occupano il palcoscenico… Poi, a poco a poco, gli attori delle gradinate salgono a comporre il primo quadro attorno al piccolo Gioanin turbato da un sogno. In palcoscenico, sulla sinistra, Duilio Del Prete srotola il racconto. Così inizia Don Bosco, la ballata popolare che Aldo Longo e Vincenzo Gamna hanno dedicato alla vita del santo di Castelnuovo. Questa sera lo si può ancora vedere ad Asti nel cortile del Palazzo del Collegio, ore 21.30. Dal 2 settembre, in occasione della visita del Papa, sarà a Torino, al Teatro Alfieri, per una decina di giorni. Per realizzarla si sono unite molte forze: l’organizzazione del Teatro Nuovo, che ha messo a disposizione le sue ballerine, Carla Perotti, gli attori del Teatro della Tradizione di Gerolamo Angione, Eugenio Guglielminetti per scene e costumi, gruppi non professionisti di Virle, Piobesi, Villastellone, Carmagnola e la cooperativa Progetto Cantoregi con cui Gamna, anche regista, nell’ultimo decennio ha allestito i suoi spettacoli più genuini e felici trasformando un paese e la sua gente in una fabbrica teatrale. ‘Na scudela ‘d fioca, Le man veuide (una creazione memorabile), il Conte di Carmagnola, erano i titoli che hanno segnalato Gamna e la Cantoregi con la loro teoria di tableaux vivants, di immagini forti e commoventi, affreschi che rimanevano ben incisi nella memoria dello spettatore respirandogli dentro. La tecnica, in questo Don Bosco, è stata conservata, ma ridotta ad uso di palcoscenico. Il canovaccio si è irrobustito, e con esso la trama. Molti professionisti sono stati chiamati a ricoprire i ruoli principali. Qualcosa si guadagna, qualcosa si perde. La genuinità, per esempio. In partecipazione emotiva: si ottiene un minor coinvolgimento da parte dello spettatore che assiste ad una pur riuscita operazione spettacolare, ma non ad una rappresentazione lungamente e amorevolmente covata in laboratorio. Il primo guadagno, per converso, è una maggior pulizia e una nitida definizione del contesto. Ma ancor prima di ciò, un altro guadagno è da registrare: Duilio Del Prete nella parte di Don Bosco narratore. Ascoltatelo bene, questo attore inquieto, che tanto si dà e tanto si spreca. Ha una voce che sembra venir su dalla terra come un fiato della notte, scura e calda. E’ pastosa. Poi, d’improvviso, si trasforma in un battito d’ala dolente, mentre dice che ci vuole l’amore e non la violenza per gli sfruttati e gli emarginati. Lo spettacolo è cucito dalla voce di questo Don Bosco al leggio, vecchio, malato, che s’immagina ripercorrere la propria vita durante l’incontro con un giovane istruttore della “Generala” (il carcere minorile torinese) venuto a chiedergli consiglio. Sfilano, come cartoline d’epoca appoggiate all’impianto girevole ideato da Guglielminetti, i bassifondi torinesi, il Rifugio per le Giovani Traviate della Marchesa Giulia di Barolo, il primo oratorio, il Valdocco,i cantieri edili e la sala di palazzo, il 1848, la guerra, la fondazione della Società Salesiana. Affascinanti risultano le composizioni corali, la plasticità espressiva di certe scene, come il funerale di un discepolo di Don Bosco ucciso dalle guardie, o la fissità eloquente di certi quadri,come quello dedicato all’aristocrazia raggrinzita e sprezzante. Festosa e commovente l’accoglienza del pubblico che ha anche tributato numerosi applausi a scena aperta. Gian Luca Favetto

L’erbo dla libertà

IL SETTECENTO DEI CONTADINI PRIMA: Pancalieri, 13 luglio 1986 TESTO: Vincenzo Gamna e Aldo Longo REGIA: Vincenzo Gamna MUSICHE: Gianfranco Poma, Eraldo Sommacal, Guido Tempia. Canti eseguiti dalla corale di Virle COSTUMI: Luigi Genero SCENOGRAFIA: Costanzo Pasquetti COREOGRAFIE: Carla Galliano, Giorgio Frigato INTERPRETI: Oltre cento attori Carignano, Carmagnola, La Loggia, Orbassano, Osasio, Pancalieri, Salsasio, Villastellone, Virle Libretto “… qualche volta, dagli affreschi e dai quadri, i loro visi ci fissano. Ma dai libri quasi mai ne intendi la voce. Le loro generazioni hanno formato le lingue e i dialetti che parliamo, le sintassi dei nostri pensieri, l’orizzonte del nostro paese, il presente. Ma la coscienza che anno dopo anno, mietitura dopo mietitura, essi formavano ai signori e ai padroni, quella coscienza non li riconosceva. Li ometeva. Confondeva le loro voci con quelle degli alberi o degli animali da cortile… erano quelle che non contavano”. R. Leydi L’erbo dla libertà è un melodramma popolare: alcune musiche dello spettacolo sono inedite, ma per la maggior parte attingono al repertorio delle canzoni del popolo riscoprendovi motivi oggi dimenticati ma che hanno fatto parte del costume di un’epoca. E la piazza è lo spazio in cui deve essere ambientato, poiché l’azione scenica prorompe al di là dei ristretti limiti del palcoscenico, non solo coinvolgendo gli spettatori nella vicenda, ma appropriandosi dello scenario naturale del luogo in cui essa viene rappresentata. Va infine rilevato che ad eccezione del prete-narratore e di alcuni personaggi come gli ufficiali napoleonici ed austriaci, gli attori si esprimono in dialetto. Un dialetto crudo ed essenziale, appena impreziosito da vocaboli desueti, che assai si discosta dalla tradizione delle commedie dialettali di maniera.