Il luogo dei cigni

PRIMA: Saluzzo, Casa di Reclusione “La Felicina”, 3 giugno 2004 TESTO: Fabio Ferrero REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE: Koji Miyazaki INTERPRETI: Attori della Casa di Reclusione partecipanti al laboratorio teatrale condotto da Grazia Isoardi Articolo tratto da “La Stampa” Saluzzo, oggi debutta davanti a Stefania Belmondo “Il luogo dei cigni” voluto da “voci erranti” e “Cantoregi” Cortile del carcere diventa palcoscenico I protagonisti sono 23 detenuti Oggi, fra i primi spettatori dello spettacolo Il luogo dei cigni nella casa di reclusione “La felicina”, ci sarà anche Stefania Belmondo. Entrerà nel cortile circondato dalle alte pareti di cemento, sovrastate da grate metalliche che lo spettacolo trasforma in palcoscenico: di qua le sedie di plastica della platea, di là il palcoscenico, delimitato sul fondo da un lungo pannello nero. Sono 23 i detenuti che hanno partecipato al laboratorio condotto dall’autunno scorso da Grazia Isoardi, coordinatrice del lavoro riproposto da Voci Erranti con il Progetto Cantoregi, per volontà della direttrice del carcere, Marta Costantino, dopo il successo che aveva coronato lo scorso anno, la messinscena de La soglia. Gli attori si muovono in gruppo: indossano pantaloni bianchi e una specie di nastro incrociato, anch’esso bianco, a disegnare qualcosa che richiama le ali: le ali tarpate di cigni che vorrebbero prendere il volo e che quasi ci riescono, se all’ulltimo, proprio all’ultimo, cinque cigni neri non li riconducessero, brutalmente, alla realtà. Dice il cigno nero ai compagni: “Sognare libertà impossibili a voi non è concesso… Dimenticate quella voglia morbosa di uscire dai vostri errori. A nessuno è dato di evadere. L’inferno è già in questo luogo”. Il sogno muore e la metafora si dissolve con i passi di danza di una ballerina, Alessia Bono. Spiega Grazia Isoardi: “Abbiamo intitolato lo spettacolo Il luogo dei cigni perché è nato dall’ascolto de Il lago dei cigni di Tchajkovskij. Il lago è diventato il luogo in cui gli attori diventano, si trasformano, acquistano le ali, ma inevitabilmente alla fine c’è il ritorno alla realtà”. I protagonisti recitano le parole del testo costruito con l’aiuto di Fabio Ferrero e Graziano Pellegrino e seguono attenti le indicazioni del regista Koji Miyazaki. I loro sogni parlano di amicizie, di risvegli da lunghi incubi, di viaggi in luoghi dove le strade sono “abitate da persone sorridenti e da bambini che giocano a mosca cieca”. Luoghi dell’immaginario tanto diversi da quello in cui passano le giornate. “Sono convinta dell’importanza di questa esperienza – commenta la direttrice de “La felicina” Marta Costantino – qui c’è un tale schiacciamento della persona che forse questa occasione rappresenta un momento di verità. Ho visto cambiamenti in coloro che hanno partecipato al lavoro, nelle modalità di relazionarsi con gli altri. Credo che il laboratorio dell’anno scorso sia servito a tutti: è riuscito a dare uno spazio di visibilità al di là della “soglia””. Vanna Pescatori

Il sole nascosto

PRIMA: Carmagnola, Piazza S. Agostino, 17 aprile 2004 PROGETTO: Vincenzo Gamna e Marco Pautasso REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero INTERPRETI: Dario Geroldi Libretto E’ una proposta teatrale che intende “celebrare la luce”, indagandone quel mistero che non appartiene soltanto alla sua dimensione scientifica, ma anche a quella spirituale, a quel bisogno connaturato di ogni essere umano di provare a riemergere dall’oscurità da cui proveniamo e a cui siamo destinati. Sulla scena, la ricerca della luce diviene tentativo per afferrare il senso della vita, nella consapevolezza che luce e tenebre non sono antinomie, ma parte del tutto.

Contàcc!

IL NOVECENTO DI UN PAESE (PRIMO ATTO 1900-1920) PRIMA: Torino, Teatro Alfa, 2004 PROGETTO: Vincenzo Gamna, Koji Miyazaki e Marco Pautasso TESTO: Giovanni Bonavia (adattamento in lingua piemontese di Vittorio Gullino) REGIA: Vincenzo Gamna AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki COSTUMI: Luciana Bodda, Rinuccia Burzio INTERPRETI: Simone Cortassa (Chiaffredo), Dario Geroldi (Camillo), Orazio Ostino (Vilàn), Pierbartolo Piacenza, Igor Piumetti Libretto E’ l’estate del 1920. Una mortifera epidemia influenzale, la Spagnola, miete vittime in ogni dove. Non è dunque casuale che in scena ci accolga un’inquietante impresario di Onoranze Funebri. Per misura profilatticaè stato temporaneamente chiuso il seminario dove il giovane Saverio perfeziona la sua già pur florida ma ingenua fede. Misura necessaria ma forse non sufficiente per preservare i novizi di Dio dagli strali del contagio (e cioè, in lingua piemontese, dal contàcc, vocabolo obsoleto, che come accade a molti sostantivi indicanti contaminazione, maledizione, massacro e appestamento, veniva usato anche a mo’ di imprecazione). Nella villa degli avi Saverio trova un baule appartenuto al defunto zio, suo omonimo. Esso contiene vecchie immagini, sembianti di un’epoca naufragata; tre di esse riacquistano bizzarramente un’istante di vita, provocando nell’animo del giovane un iniziale sconcerto, poi stizza, poi sincera curiosità ed infine partecipazione alla vicenda tramontata. I tre narrano la loro storia: il villico nudamente semplice che, nel sole d’una obliata domenica, aveva dialogato col Re Umberto; il barbiere contemplativo tacciato di anarchismo; l’ombra di un giovane che la Grande Guerra ha orbato dell’amore, del ritorno e della vita stessa. Nel cuore di Saverio fiorisce il dilemma: abbracciare la contaminazione (il contàcc) dell’umanità e farsi trasformare dall’azione dei suoi alchemici anticorpi o ritornare all’abbraccio d’una fede che dovrà per forza divenire meno candida e più remota, algida, smateriata? Non apparirà nessuno capace di soccorrere Saverio, d’indicargli quale via battere con risoluta sicurezza?

La Soglia

PRIMA: Saluzzo, Casa di Reclusione “La Felicina”, 25 giugno 2003 TESTO: Grazia Isoardi e Fabio Ferrero, con la partecipazione degli attori della Casa di Reclusione REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE: Koji Miyazaki INTERPRETI: Attori della Casa di Reclusione “La Felicina”, partecipanti al laboratorio teatrale condotto da Grazia Isoardi. Libretto Ecco l’immensa porta al margine della foresta. Di là il mostro a guardia del bosco di cedri sacro agli dei. Di qua la sfida lanciata dall’uomo creatura vagante mostruosa fatta d’argilla. Una strana storia tra l’argilla e il cielo. Una storia di bordo. Nessuno è vinto. Nessuno è vincitore. Ecco l’immensa porta. Varcare la soglia. Di questo si tratta. Passaggio e guado. Una lacerazione nel varcare la soglia. Morte e rinascita. (da L’Epopea di Gilgamesh) Nella percezione comune in carcere non manca nulla. Manca “solo” la libertà. In realtà l’assenza di libertà che più di ogni altra emerge, è la costrizione dei gesti, dei movimenti, delle parole… In carcere non si può gridare, non si può litigare, non ci si può rilassare. E’ come vivere in una stanza insonorizzata dove la dimensione dell’ordine è caratterizzata dall’assenza di movimento e di rumore. Il teatro è “il luogo per eccellenza”. Il carcere è “varcare la soglia”. Articolo tratto da “La Repubblica” Saluzzo, per la prima volta il laboratorio creato alla Felicina dà vita a uno spettacolo fuori dalle mura del penitenziario. Ed è un successo Teatro in piazza sognando la vita Per i detenuti attori un’ora di libertà L’applauso finale è spontaneo, lungo e ripetuto. Gli attori, in gran parte a torso nudo, qualcuno con una canottiera nera, tutti con pantaloni combat verde militare, ringraziano con un inchino, poi spariscono dietro la quinta di carton gesso. Non ci sono camerini ad aspettarli ma i cellulari della polizia penitenziaria che li riporteranno nelle loro celle alla Felicina, il carcere saluzzese. Quello che è andato in scena ieri pomeriggio a Saluzzo (Cuneo), in piazza della Castiglia, di fronte all’omonimo carcere, una tetra prigione chiusa nel ’92, è uno spettacolo unico: nove monologhi in una cornice di musica e danza recitato dai detenuti della Felicina. Il titolo è “La soglia”, sottintendendo quella che separa la libertà dalla detenzione. Un testo messo a punto dai prigionieri con l’aiuto di Grazia Isoardi, direttrice del laboratorio teatrale. Ieri, in occasione del convegno nazionale “Esperienze teatrali in carcere” svoltosi al chiostro di San Giovanni, per la prima volta i detenuti-attori si sono esibiti in piazza. Sorvegliati discretamente dagli agenti della polizia penitenziaria (in borghese e con le pistole celate nei borselli, solo due le mitragliette affidate alle guardie in punti strategici) i prigionieri della Felicina, diretti dal regista giapponese Koji Miyazaki, hanno recitato per un vero pubblico. In scena undici detenuti, molti dei quali condannati a pene pesanti, tre ex loro compagni di cella che pur essendo tornati liberi non hanno voluto mancare e sei attori di una compagnia teatrale della zona. L’ovazione finale è la ricompensa non solo per loro ma anche per Marta Costantino, giovane direttrice del carcere saluzzese e una delle tre donne che sono all’origine di questa storia. “Tre pazze in realtà. Quando tre anni fa ho assunto la direzione della Felicina la situazione era difficile. Il carcere era un qualcosa in cui chiudere le persone. Volevo fare qualcosa e Antonella Basile, responsabile degli educatori, mi ha fatto conoscere Grazia Isoardi…” Il laboratorio è nato nel novembre di due anni fa. “Per reclutare gli attori è bastato affiggere un cartello in cui si spiegava che c’era la possibilità di recitare”, sottolinea la direttrice della Felicina. Dei 370 detenuti se ne sono presentato solo venti, qualche mese dopo altri venti. Ne frattempo però altri avevano dato vita ad un giornale, “Parole in libertà”, voluti da Marta Costantino ma pensato e scritto in totale libertà dai reclusi. “I primi tre mesi sono stati durissimi. Avevamo di fronte uomini che non erano solo chiusi in una cella ma anche dentro se stessi”, racconta Grazia Isoardi. Recitando ad alta voce, spesso urlando però i prigionieri della Felicina si sono riscoperti non solo attori ma uomini. Giuseppe di Caltanisetta, 29 anni, in galera da quando ne aveva 20 con una condanna di 15 per omicidio, dice:” Forse se avessi conosciuto questo prima non sarei qui. Nel laboratorio ho guardato dentro di me, visto il buono e il cattivo e mi sono accettato. La rabbia che mi ha spinto ad uccidere si è placata”. Guido, un tempo giocatore di basket a Varese, deve scontare otto anni. “Ho fatto una cazzata, recitare è un modo per non perdersi”. Marco, 36 anni, è uscito a novembre dopo dodici mesi per traffico di droga ma ha voluto andare in scena lo stesso. Anche Pablo, senegalese arrestato per droga,è libero, ma da Napoli è tornato a Saluzzo per lo spettacolo. “Ho fatto quasi tre anni in cella, faccio parte del gruppo”. Namil, tunisino di 35 anni, dal ’96 in galera per droga e con otto anni davanti, ammette: “Sinora avevamo recitato in carcere, qui è diverso. Sto assorbendo tutto quello che vedo, alleno la vista. Là ho di fronte solo un muro”. Meo Ponte

Bella gente

PRIMA: Racconigi, parco dell’ex ospedale psichiatrico, 19 giugno 2003 TESTO: Davide Cavagnero REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero INTERPRETI: Attori del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asl 17 e del laboratorio teatrale Voci Erranti di Grazia Isoardi

Le acque hanno i volti

PRIMA: Racconigi, Castello Reale – piazzale nord, 27 maggio 2003 PROGETTO: Vincenzo Gamna, Koji Miyazaki e Marco Pautasso REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero COSTUMI: Luciana Bodda, Rinuccia Burzio INTERPRETI: Dario Geroldi (narratore), oltre quaranta attori a interpretare i “volti” dell’acqua, la confraternita del Gonfalone e della Misericordia di Villafalletto, la Banda Musicale di Villafalletto Libretto “Le acque hanno volti, e sopra i volti affiorano burrasche, bonacce, correnti…” Erri De Luca Un’evento teatrale all’insegna dell’acqua, o meglio delle acque. La risorsa idrica, il cosiddetto “oro blu” ne è il protagonista assoluto, il soggetto dominante insieme allegorico e concreto. L’acqua non è solo il liquido primordiale narrato dalla Genesi, o la saliva con cui Dio impasta la creta con cui verrà creato Adamo, ma anche l’abisso dove oggi naufragano le speranze dei clandestini. L’acqua dunque come elemento universale che accoglie tutto, che abbraccia la vita e la contiene. E’ nell’adesione di questo assunto, dell’acqua che si compenetra alla vita sino a confondersene che abbiamo pensato ad un’azione scenica che non si preoccuperà di indagarne le ragioni scientifiche, a descriverne gli usi e i consumi, a sviscerarne le implicazioni ambientali, ma che proverà ad individuarne ed avvalorarne le profonde radici culturali. Il titolo è mutuato da un’illuminante frammento di una lirica di Erri De Luca, Volti. La declinazione al plurale non è casuale, ma intende darne forza, assegnarne importanza e nello stesso tempo rimarcarne la molteplicità, la complessità di aspetti che non sempre siamo in grado di riconoscere pienamente. Perché le acque, in una sorta di visione antropomorfica, hanno “volti”, e proprio la rappresentazione di questi volti fornisce l’impalcatura tematica, costituisce l’ossatura del nostro spettacolo. Ad interpretare, a mostrare questi “volti” (della vita e della morte, della punizione e della purezza, del lavoro e del divertimento, della divisione) si avvicenderanno visivamente in uno spazio scenico costituito da un’ampia vasca, alcuni quadri viventi con la partecipazione di un centinaio e più di figuranti (comprese le Confraternite e la Banda Musicale di Villafalletto, celebri per la tradizionale processione del Mortorio Pasquale). A far da cesura ai quadri viventi, a cucire il filo rosso del nostro particolare racconto per immagini, un attore in veste di narratore, posto al centro della vasca, a rappresentare simbolicamente la scelta di approdare dalla terra ferma all’acqua, per ricercare l’intimità, la prossimità con il mistero della vita: un po’ come ritornare al grembo materno.

Bariùm

STUPEFACENTE PRIMA: Racconigi, Parco dell’ex ospedale psichiatrico, 7 giugno 2002 PROGETTO: Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Koji Miyazaki, Marco Pautasso TESTI: Giorgio Cattaneo REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero e Davide La Torre COSTUMI: Luciana Bodda, Rinuccia Burzio INTERPRETI: Sessantaquattro attori in scena, alcuni dei quali partecipanti a un laboratorio teatrale tenutosi con alcuni ex ospiti della struttura ospedaliera Libretto Ogni esistenza è pensiero dell’eternità vissuto nella sua quotidiana conquista” (Edmond Jabes) Il titolo è un’invenzione linguistica, un neologismo, una sintesi verbale che al circo per antonomasia Barnum unisce lo psicofarmaco più conosciuto e consumato, il Valium. E’ infatti, in queste due direzioni, il circo e la terapia, che prova a muoversi tutto l’impianto drammaturgico. Al circo rimanda la composita troupe di “attori” e tecnici, una sessantina di persone, riunitesi a conclusione di un percorso di laboratorio teatrale: operatori ed utenti del Dipartimento di Salute Mentale, volontarie giovani studenti. Ma al circo rimanda anche la composizione del mosaico, la scansione a “numeri” che connota la scrittura scenica. Il circo dunque come veicolo privilegiato per una comunicazione immediata ed “altra”, il luogo dove si contaminano sensibilità diverse, forse l’unica messinscena artistica contemporanea che sa armonizzare verità e finzione. Quello di Bariùm è un circo “sui generis”, improbabile, malcerto eppure unico, in cui la pista, volutamente non circolare, vuole comunque realizzare una comunione con il pubblico, e il cui tendone rivela il cielo e le stelle. La mancanza del cerchio, che nel circo ha forte valenza simbolica e indica omogeneità, assenza di distinzione e di divisione, ma definisce sempre e solo lo spazio e il momento, non abdica alla ricerca di una unità, di una condivisione, intende anzi perseguire il tentativo di una comunità più ampia, allargata, che si allunga oltre lo stretto ambito scenico, per rendere intellegibile e affermare una volontà di comunicazione, di partecipazione, di integrazione con la diversità e il pubblico. Articolo di Francesca Paci tratto da “La Stampa” Un elettroshock per Sofocle Gli attori hanno vissuto l’orrore degli ex manicomi Sul palco veste il mantello nero di un prestigiatore e sfodera dal cilindro un barboncino marrone: doveva essere un coniglio ma il pubblico, con lui, immagina orecchie e coda a batuffolo. Nella vita, le “visioni” accompagnano Alessandro Mantelli da quando era adolescente e in manicomio lo curavano a scosse di elettroshock, “ne ricordo tredici appena arrivato, piangevo ma mi calmavano, avevo la testa fasulla, vedevo ovunque ragazze che non c’erano”. All’ex ospedale psichiatrico di Racconigi, dove lavora nella compagnia teatrale Progetto Cantoregi insieme con Grazia Isoardi e Alessandro Vallarino, è arrivato a 26 anni. “Ora ne ho sessantuno e sto bene, sono stato dimesso”, racconta mentre passeggia per il viale alberato del parco, un silenzio spettrale rotto dal frinire delle cicale che si perde nell’afa di luglio. Introno, i padiglioni abbandonati, dove fino al ’98, vent’anni dopo l’approvazione della legge 180, dormivano ancora i pazienti rimasti senza destinazione, il Tamburini, il Chiarugi, il Morselli da cui una volta entrati non si usciva più, custodiscono l’eco di millecinquecento grida segregate. Alessandro ricorda solo il distacco dal fratello Bruno, adorato. I calmanti, la camicia di forza, la violenza, sono rimasti fuori dal residence Orchidea che lo ospita, lo sguardo è avanti. Il 23 luglio sarà in scena con ventuno “compagni della comunità Monviso”, tutti in cura al dipartimento di salute mentale, ai giardini di Palazzo Reale di Torino: Barium, uno spettacolo organizzato dal Regio in collaborazione col Comune e con La Stampa, è il suo secondo debutto e, dopo il successo di Voci erranti, ha cominciato a sentirsi davvero un attore. “Quando venne il regista – dice Alessandro – pensavo fosse un poliziotto con quell’impermeabile coi bottoni tondi, pioveva. Mi disse che sembravo Eduardo De Filippo e siamo diventati amici, io e Gamna Vincenzo”. Ha in mente tutte le persone conosciute, il cognome e poi il nome, come a scuola. Bruno Giovanni, che sotterrava nel parco un flacone di monete da cent lire. Crippa Bruno, l’infermiere del cuore, oggi pensionato in servizio come volontario. Brondino Frontone, “un grande interprete, provando il vecchio spettacolo tirò fuori quella volta che i carabinieri andarono a prenderlo in baita per portarlo al manicomio di Collegno, lui si era nascosto in una madia”. Dal 1200, coi “vescovi folli” autorizzati a portare in scena “i panni sporchi” della società medievale, il teatro duetta con la pazzia: l suo alter ego, secondo lo scrittore francese Antonin Artaud che, nel 1938, pubblicò Il teatro e il suo doppio, manuale inossidabile per studenti di drammaturgia. In Italia il Progetto Cantoregi di Racconigi, non è un caso isolato. C’è il regista Pippo Del Bono che dal laboratorio del teatro di Aversa ha portato in compagnia Bobo, un microcefalo, ormai compagno inseparabile. Danio Manfredini, gran mattatore di Cremona, a lungo responsabile del corso di pittura nella comunità psichiatrica meneghina Casa Nuova. Il festival del teatro patologico, pensato da Dario D’Ambrosi dopo un periodo con gli internati del Pini di MIlano. Alessandro Mantelli non sa nulla di loro, cognomi e nomi mai sentiti, una storia che non ha bisogno di imparare dai libri. da quando calca le scene invece, ha scoperto Eschilo, Sofocle, il passato lontano e altro, “ho visto tragedie estive, bellissime”. E’ una sorta di capocomico della compagnia, tiene un diario delle prove, aiuta il regista a costruire il testo a suon di associazioni mentali a valanga, incoraggia i compagni. Liliana Bosso è agitata per il debutto di Barium, arriva a passetti svelti dal padiglione Tigli dove vive e siede su una panchina, testa bassa, spalle strette nella camicetta blu. In scena dovrebbe essere lobotomizzata, l’ex ospedale di Racconigi fu l primo in Europa a sperimentare l’intervento, ma non è quel ruolo che la preoccupa. “Sono depressa, ho bisogno d’affetto – dice tutto d’un fiato guardando fisso in terra una moneta da venti centesimi che non raccoglie – ogni sera per dormire prendo ottanta gocce di calmanti, poi iniezioni, sempre così”. Liliana, Lily per gli amici del parco, è famosa per le fughe, l’ultima un mese fa, “vado a casa da mia cognata, ma poi torno qui Marina, Marilena, Augusta, le infermiere mi vogliono bene”. Racconta di aver visto il primo manicomio a quindici anni, A Collegno, “mi ci accompagnò mia madre, non mi voleva, venne la croce rossa a portarmi via, non posso più sentir urlare”. Da allora, è entrata, uscita, scappata, al Tigli è in cura dal ’96. lo spettacolo del 23 luglio significa un programma per chi con la memoria ha cassato la capacità di progettare. Quando qualcuno sbanda, Eugenio Ballari agita le mani nervose che per mezzo secolo hanno lavorato nei campi dell’ospedale per un bicchiere di vino al giorno: richiama all’ordine la compagnia col suo linguaggio. Il piccolo uomo con le spalle tanto curve da formare un angolo retto col resto del busto, è al Morselli da quando aveva cinque anni, ne son passati sessantatré. Si ritrae timido al ricordo dell’elettroshock, la cena a base di verdura a un po’ di cioccolata, 360 persone gomito a gomito a prendere aria nei cortili di pochi metri quadrati dentro i padiglioni, ma appena sale sul palco di Barium, la giacca scura luccicante di alamari, solleva lo sguardo, gonfia il petto gracile e sorride. Francesca Paci Articolo tratto da “L’Unità” Venite al Barium, il circo che fa bene all’anima e alla mente Da tempo le idee viaggiano sulle t-shirts. I miei figli ne hanno una con due globi terracquei sorridenti che si tengon per mano. C’è scritto”Mondi diversi… senza diversi”. Se serve a farli crescere nell’idea di uguaglianza e fraternità, allora ringrazio l’ideatore della maglietta che mi aiuta, col suo piccolo contributo, a fare il genitore in un paese dove devo spiegare l’assurdità e la crudeltà di una legge come la Bossi-Fini a due ragazzini che già da soli ne percepiscono l’aberrazione. Così succede con Barium (l’altra sera in replica, con successo, nel cortile di Palazzo Reale a Torino, spettacolo sopite del Teatro Regio, con la regia di Koji Miyazaki su progetto curato con Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Marco Pautasso, Giorgio Cattaneo e Alessandro Vallarino) per il quale non si dovrebbe mai smettere di ringraziare quanti si sono spesi dedicando tempo e fatica, non importa in che ruolo dal regista alla comparsa, da musicante al trovarobe, per una pièce che sullo spettatore allo stesso tempo ha una forza d’urto gigantesca e una sensibilità talmente delicata da commuovere. E’ un lavoro teatrale in cui a una voce chiara e pacata contro la diversità coatta, si unisce un’altrettanto tranquilla, ma ferma, protesta per avere una medicina ogni giorno più umana e per modelli di terapia che siano meno egemonizzati dalle pillole, contro metodi che curando il disturbo spengono la persona, lasciandola inerte e accartocciata su se stessa. Barium (come Barnum, circo per eccellenza, ma anche come Valium, lo psicofarmaco per antonomasia) protagonisti – perché tutti meritano la ribalta – ne ha una settantina tra gli attori di Progetto Cantoregi e quelli del laboratorio teatrale, organizzato dall’Associazione Voci Erranti, per studenti, operatori ed utenti del Dipartimento di Salute Mentale di Racconigi (Cuneo), tra cui alcuni ex ricoverati del locale ex ospedale psichiatrico, chiuso come gli altri dopo l’avvento della legge Basaglia. Tuto lo spettacolo vive sul parallelismo tra il circo e la terapia. Da un lato il mondo nomade che vive sotto il tendone, con la sua scansione a numeri individuali e di gruppo, con le sue mirabolanti imprese, con le fascinose interpreti che si fissano nell’immaginario di ognuno, con gli artisti sempre più spericolati e alla ricerca dell’impresa più difficile. Ma non è un circo tradizionale: intanto si sviluppa sotto le stelle, quasi per ampliarne la dimensione, poi non ha la pista che definisce lo spazio tra l’artista e lo spettatore, per cui la distinzione tra chi sta di qua e chi sta di là, tra i camici bianchi e i pazienti, tra i normali ed i diversi non c’è più. Tutti uguali, tutti coinvolti, tutti consapevoli. Ma non non soltanto del circo e nel circo, perché Barium è anche una storia dedicata alla terapia, alla cura, al dormitorio e alla colonia agricola, alla sala operatoria e all’ambulatorio, al refettorio, al cortile, alle docce, prendendo spunto dagli scritti, dai disegni, dalla memoria degli ex degenti. Insomma una favola di lieve sensibilità e di profonda riflessione contro barriere soprattutto invisibili. Luis Cabasés Articolo tratto da “La Stampa” Bariùm è la vita non solo terapia La Stampa-Torino, 25 luglio 2002 C’e’ l’acrobata e il lanciatore di coltelli, l’illusionista che cava un cagnolino dal cappello a cilindro e la virtuosa della camminata sul filo. Ma non e’ un circo come gli altri, quello di <>, spettacolo presentato l’altra sera a Palazzo Reale, davanti a un pubblico numeroso e coinvolto. Se si capisce il senso del titolo, si comprende anche perche’ non si tratta di un circo qualunque. La parola Barium <<e’ una=”” sintesi=”” verbale=”” che=”” al=”” circo=”” per=”” antonomasia,=”” barnum,=”” unisce=”” lo=”” psicofarmaco=”” piu’=”” conosciuto=”” e=”” consumato=””>> spiegano gli autori Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Koji Miyazaki e Marco Pautasso (il testo, invece, e’ di Giorgio Cattaneo). L’allestimento, diretto dal giapponese Miyazaki e realizzato dal Progetto Cantoregi con Associazione Voci Erranti e Dipartimento di Salute Mentale ASL 17 di Fossano-Saluzzo-Savigliano (in collaborazione con La Stampa) si colloca proprio in uno spazio di confine tra arte e terapia. Non per nulla, gli interpreti, gli <> e i tecnici che animano questo toccante circo <>, sono operatori e utenti del Dipartimento mentale, oltre a studenti e volontari, tutti coinvolti in un laboratorio che ha costituito la genesi di <>. Un cast composito, dunque, in cui non mancano ex degenti dell’ospedale psichiatrico di Racconigi, per uno spettacolo giocato sulla doppia valenza circense e terapeutica. L’intreccio tra gioco scenico e evocazione di ambienti e spazi dove si esercitano le cure, e’ senza soluzione di continuita’ e, percio’, ancor piu’ suggestiva. Dal clown, dal lanciatore di coltelli che colpisce chiunque tranne il bersaglio, si passa ad azioni corali che richiamano scene di <>, descritte con levita’ poetica. Non manca un messaggio: difficile vivere questa esistenza impasticcata e ingabbiata, dove <>, dove si va avanti a suon di stupefancenti, senza deragliare, qualche volta dai binari, senza essere, come si dice, un po’ <>. Silvia Francia

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Passio della Resistenza

LUOGO: Racconigi, 30 aprile 2002 COMPOSIZIONE: Koji Miyazaki REGIA: Vincenzo Gamna AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki MUSICHE E SUONO: Gilberto Richiero

Storia di papà

PRIMA: Savigliano, Teatro Milanollo, 3 aprile 2001 TESTO: Adattamento teatrale di Vincenzo Gamna, Koji Miyazaki e Marco Pautasso da I Sansossì di Augusto Monti. Adattamento in lingua piemontese di Antonio Tavella REGIA: Vincenzo Gamna AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero COSTUMI: Luciana Bodda, Rinuccia Burzio INTERPRETI: Diciassette attori con Dario Geroldi e Susanna Paisio narratori e accompagnamento musicale del gruppo Mishkalè Libretto “Noi nella vita abbiamo il padre e abbiamo Papà: il padre che ti mette al mondo, Papà che ti leva da terra, e ti tiene come cosa sua e cara. Il padre ti ha generato; ma chi ti vuol bene, e ti diverte bambino e ti castiga grandicello, e uomo, se sopravvive, ti ammira, questo è Papà e nessun altro che lui. Del padre uno nella vita può fare a meno: del Papà no. Succede talvolta che il padre è anche Papà; più spesso succede altrimenti: il padre muore o manca per qualche ventura: bisogna che gli succeda un Papà; il quale si trova sempre poi, chi se lo merita, perché Papà può essere la mamma, o il nonno, o il fratello o uno d’altro sangue, magari estraneo, ma Papà. Per me mio padre è stato anche Papà, e questa è, forse e senza forse, la fortuna più grande che io abbia avuta al mondo…” Un grande affresco popolare. Una cronaca domestica piemontese del XIX secolo. Un autentico romanzo di formazione, un “romanzo autobiografico di un padre che rinasce nel figlio, così come la generazione di democratici sconfitta dal fascismo rinasce nella generazione che il fascismo combatte”, come ricorda nella sua autobiografia Norberto Bobbio. Tutto questo è I Sansossì di Augusto Monti, un’opera fondamentale della nostra letteratura, non solo regionale, colpevolmente trascurata se non addirittura dimenticata. E’ il romanzo di una vita, la storia di un’esitenza, di un vecchio Piemonte che muore per far nascere una giovane Italia, dell’educazione di un figlio e di quella di un popolo, di paesi perduti nella memori e di città che cambiano ogni giorno, di amori che dividono e di morti che riuniscono, di uomini a volte saggi altre volte temerari ma sempre onesti e, come i bambini delle fiabe, spensierati. Ovvero, oggi come allora, “sansossì”. Storia di Papà, la proposta teatrale che ne è liberamente tratta e che ne riprende il titolo originario, oltre che un omaggio sentito alla figura di finissimo intellettuale di Augusto Monti, si propone come un suggestivo viaggio nella memoria: nell’intrecciarsi delicato di rapporti tra padri e figli, con la storia che fa da contrappunto, si snoda infatti, tra piccole avventure quotidiane, la vicenda esistenziale di una famiglia piemontese del XIX secolo, dai risvolti imprevedibilmente poetici. Avventure vissute tra Monesiglio, Ponti, Alba, Torino, in un ambito territoriale decisamente circoscritto quindi, ma ciononostante raccontate sul filo della nostalgia con un entusiasmo che va oltre gli evidenti limiti spaziali e che non conosce confini: l’entusiasmo di chi sa che ricordare è il miglior viatico per alleviare la malinconia che viene al pensiero del tempo che passa. Articolo tratto da “La Stampa” Oleggio a teatro con “Storia di papà” La Stampa-Novara, 17 aprile 2001 Bartolomeo Monti lotta disperatamente tutta la vita per sfuggire al destino preparatogli dagli avi. Un delicato e <> intreccio di rapporti tra padri e figli scorre in parallelo alla <> storia, con Napoleone, Carlo Alberto e la Guerra di Indipendenza, Saracco e Giolitti. E’ da questi scenari contrastanti eppure complementari che prende il via <> di Augusto Monti. Questa sera al comunale di Oleggio, alle 21, il testo diventa prosa. Lo propone lo Stabile di Torino, per il <>, nel contesto di un circuito regionale che e’ stato poco divulgato. <> e’ portato in scena da Sergio Appendino, Bruno Crippa, Daniele Mela, Dino Nicola, Orazio Ostino, Vittoria Riviera e Manuela Zulian. Sul palco lettori, narratori, e il gruppo musicale <<mishkale’>>, con Sergio Appendino, clarinetto, Valerio Chiovarelli (fisarmonica) Ezio Cordero, basso tuba, Michele Salituro, violino. Si cimentano con un omaggio all’intellettuale Augusto Monti, che nel volume propone un suggestivo viaggio nella memoria, nella storia di una famiglia piemontese, con avventure vissute tra Monesiglio, Alba, Torino, in un ambito territoriale circoscritto, ma parallelo ai grandi eventi tramandati nei libri di storia. <> . Romanzo autobiografico di Augusto Monti, nato a Monastero Bormida, terra di Langa al confine con l’appennino ligure e il Monferrato, <> racconta l’educazione di Carlin, l’alter ego di Augusto Monti, tra giochi infantili e malinconie dell’eta’ adulta: con la consapevolezza che per riaggiustare gli errori della vita, della storia, dei tempi, bisogna comporre la biografia dell’eroe rivelando continuamente la realta’ del suo cuore, quella che non interessa ai libri di storia. Cristina Meneghini

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Voci Erranti

PRIMA: Racconigi, Parco dell’ex ospedale psichiatrico, 15 giugno 2000 TESTO: Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Koji Miyazaki, Marco Pautasso, con la collaborazione di Alessandro Vallarino, tratto da Graffiti della follia di Ennio De Concini e da vario materiale documentario presente negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi REGIA: Koji Miyazaki AMBIENTE E LUCI: Koji Miyazaki ELAB. SONORE: Gilberto Richiero COSTUMI: Giuliana D’Alberto INTERPRETI: Trenta attori, alcuni dei quali partecipanti ad un laboratorio teatrale tenutosi con alcuni ex ospiti della struttura ospedaliera, diretto da Grazia Isoardi Libretto Voci Erranti è un piccolo progetto drammaturgico che altro non si propone che raccontare un mondo di sofferenza ai più sconosciuto. Un mondo che abbiamo isolato, recluso, metodicamente rimosso, pensando così di riuscire a rendere razionale l’irrazionale, e confermare la solidità del nostro Io, della nostra ragione, del nostro senno. Siamo stati per anni sordi, insensibili al dolore di chi si muoveva nel buio della mente, lo abbiamo tenuto nascosto, segreto e soprattutto non abbiamo saputo condividerlo. Abbiamo emarginato quel dolore in luoghi deputati, abbiamo creduto che potesse essere solo degli altri, che non dovesse mai appartenerci; lo abbiamo reso così senza speranza, affidandola sua rappresentazione solo alle parole della competenza e della tecnica. Non avevamo inteso invece che la sofferenza, qualunque essa sia, è essenziale nella realtà, che il dolore è consustanziale alla vita, che ne è inscindibile, che ne conferisce, forse, un senso. Sulla malattia della mente abbiamo pensato così di calare una coltre di silenzio, di indifferenza, quando non di insofferenza. Voci Erranti intende provare a scalfire, a frangere proprio quel muro di omertà, finanche di paura, che per molto tempo, e fino ai giorni nostri, ha sottratto quel dolore al nostro sguardo. Per guardarlo in faccia, per scardinare ogni correttezza acquisita, per corrompere la nostra quiete apparente. Voci Erranti è un passo mosso nella direzione della comunicazione, verso la possibile ricerca di un dialogo, per dar voce, per restituire dignità ad un universo di esclusi e di solitudini. Abbiamo individuato nell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi lo spazio scenico ideale per esprimere questo nostro sentire. Perché, a nostro avviso, è proprio varcando la soglia di un luogo simbolo della sofferenza, così impregnato di memorie, naturale veicolo di emozioni e di verità difficilmente esprimibili altrove, che possiamo tutti insieme fornire il segno tangibile e concreto di una volontà di condivisione, di non rimozione. Con Voci Erranti abbiamo voluto emblematicamente accogliere, come in una casa comune, alcune testimonianze segnate dal disagio mentale, compulsate dalla varia letteratura sulla realtà manicomiale o semplicemente raccolte mettendosi in ascolto di chi ancora oggi abita la sofferenza, e raccontare così i punti di crisi di tante biografie, quando la malattia irrompe come un fiume in piena inondando la mente e dove la vita improvvisamente si ripiega su se stessa e si interroga sulla sua insensatezza sulla sua insopportabilità, e dove l’eperienza del dolore così radicato, quasi pietrificato nell’individualità, finisce per rendersi spesso incomunicabile e perciò muto. I nostri attori, grazie anche all’intensa attività laboratoriale in preparazione all’allestimento vissuta a stretto contatto con alcuni degli ospiti delle comunità attualmente operanti all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi, proveranno insieme a loro e per loro a vincere questa incomunicabilità, facendosi ciascuno portatore di quel dolore silente, per darne espressione e perciò forza, per farlo proprio, per condividerlo, per comunicarlo, e non semplicemente per interpretarlo. Voci Erranti è il nostro piccolo ma sentito sforzo per tentare di sottrarre la sofferenza alla sua solitudine, per accoglierla e perciò comprenderla, e ricondurla così nelle vicinanze della condizione umana che, è bene non dimenticarlo mai, è condizione di comunicazione. Articolo tratto da “La Repubblica” Il mistero della malattia mentale. Nel manicomio di Racconigi, a pochi chilometri da Torino, i pazienti e gli ex degenti recitano il proprio dolore Quelle voci dal teatro dei matti Le anime morte vestono camicioni bianchi,si muovo no con i piedi nudi nell’acqua. Guardano in basso e parlano solo quando hanno il permesso. Oppure guardano alto in un istante di esaltazione. Vedono quello che altri non vedono, vogliono farlo sapere, gridano. Bisogna calmarli. Ma di solito stanno dove devono stare, ubbidiscono. Temono il direttore, che li guarda dall’alto e gli fuma in faccia. Hanno facce stravolte, sono impegnati in un paziente ricordo che torna e ritorna o nella contemplazione di qualcosa. Non sanno che cos’è, non lo sa nessuno. Ma loro, almeno, lo vedono anche se non mostrano più la meraviglia. Temono il direttore ma amano la suora, che è un angelo. Un angelo, loro lo sanno, può anche essere terribile. A loro basta pronunciare la parola “angelo”, come esorcismo. Hanno segni bianche sul viso. Quei segni distinguono la loro natura di adepti, la chiamata di un mondo diverso, come la santità, come una rivelazione o un abbaglio. Si adattano, si piegano stremati alla forza della terapia dolce, la pastiglia che consuma la forza. Soccombono, con il corpo legato, alla terapia violenta che, attraverso le ossa e i nervi, deve raggiungere l’anima. Seguono la routine, rispettano ogni minima regola che decide ogni minimo istante di vita. Sembrano miti. Ma si piegano? Qui vedi che girano in tondo, con i piedi nell’acqua. Capisci che sanno altre cose, ma per il bene di tutti non devono dirle. Quello che avviene qui, e che vediamo in forma di spettacolo strano e perfetto, è simile e opposto a ciò che avviene nei campi dei desaparecidos o nelle prigioni. Qui blandiscono, seducono, disorientano i prigionieri, se necessario torturano con getti d’acqua violenti, con strumenti di contenzione, con scariche elettriche. Tutto, affinché non parlino. Però sopravvivono. Sono arrivati fin qui e fanno teatro. Qui dove siamo? Siamo in un bosco, in una notte d’estate. Tutto comincia dopo le dieci di sera. C’è uno spazio tra gli alberi, l’acqua per terra, ombre bianche che si muovono cautamente, tenui banchi di nebbia. E sul fondo nero degli alberi uno sfolgorio di lucciole. Siamo in un manicomio. E’ il manicomio di Racconigi, trenta chilometri da Torino, cento passi dal Castello Reale. Uno dei più grandi centri di reclusione della follia italiana. E’ la casa dei matti che non stanno al passo dei doveri e del lavoro. Portati su dai campi, dove stranamente tentavano di uccidersi, come se fossero ricchi, o di uccidere, come se fossero criminali. E invece loro erano disinteressati. Uccidevano e restavano lì, senza rivelare il segreto, senza ammettere e senza negare, sapendo che non si può spiegare, consapevoli di meritare una pena. Siamo a teatro. Infatti quando la lama dei riflettori ti aiuta, vedi panchine bianche disposte intorno al cerchio d’acqua e poi gradinate improvvisate, fra il cerchio d’acqua e gli alberi. E intravedi l sagome scure di due o trecento persone che si stipano per guardare. Nella tensione non senti un respiro. Tutto il paese viene a vedere cosa c’era nella città dei matti. Siamo a teatro, ma questo è il più strano e il più rigoroso teatro d’Europa. Gli attori (le ombre bianche) sono parte della comunità psichiatrica che c’è in questo bosco, oppure sono giovani volontari, non attori di professione. Il regista è Koji Miyazaki. Con Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Marco Pautasso fa parte del Progetto Cantoregi. Sono i fondatori e i seguaci di un culto del teatro bellissimo e irripetibile, perfetto come se dovesse durare una vita senza perdere un colpo. E invece non può ripetersi. E’ come se Ricasso fosse stato un madonnaro che disegnava sull’asfalto del marciapiede le sue figure abbandonandole alla pioggia.Qui sono tutti felici perché da due giorni non piove, l’anziano sindaco, che sa che queste cose si ripeteranno, al massimo, per tre o quattro sere. Il giovane assessore alla Cultura, che alla comunità aperta del dopo manicomio lavorava da anni. Una sua ossessione (“C’era uno stanzone lungo 120 metri, un’unica stanza, una sola suora, ottanta malati su un lato, ottanta sull’altro. Toglievano la luce alle otto di sera”) ha ispirato una parte del testo. E la senti come un incubo per le quasi due ore dell’evento spettacolo, che però è anche un saggio, un convegno, una terapia e una sosta dei non addetti ai lavori e dei sani presunti che possono affacciarsi sul bordo di un mistero.Il confine è segnato da quel cerchio d’acqua profondo pochi centimetri, che lentamente si muove portando barchette di carta che sono anche messaggi ultimi e disperati dei degenti. Il cerchio d’acqua continua a girare e disorienta. Deve disorientare. Questo è il mondo in cui nulla è fisso, in cui principio e fine si creano in un altro modo e hanno un altro significato. Si chiama Voci Erranti il rito notturno del Progetto Cantoregi di Racconigi, che potete chiamare “teatro”, “spettacolo” o “happening”, se volete collocarlo in una lista di normali eventi. Ma questo non è un evento normale. “Laggiù” ti dicono indicando dall’altra parte del bosco “c’è ancora un reparto chiuso. Urlano tutta la notte, e certe volte anche da qui le senti”. Per fartelo intravedere Gamna e Miyazaki conducono con estrema cautela, con un tocco dolce da estranei, i movimenti, le luci, le voci i suoni (bellissimi i suoni) di scena, soprattutto quelli che coinvolgono nell’azione gli ex degenti, i malati. Fanno in modo che il sussulto, il trasalimento, lo stupore, lo spaesamento, il senso impotente della protesta, la totale mancanza di potere e controllo si senta di qua, tra i nervi del pubblico. Si sente, infatti, il dolore e l’umiliazione della lingua negata, quel pozzo assoluto di solitudine che è la malattia mentale, troppo grande o troppo profonda o troppo diversa per essere raggiunta da mani umane, destinata a sfuggire in avanti con i movimenti di una marionetta tormentata, troppo passiva e troppo viva, un grumo di contraddizione e di dolore. Le voci che danno il titolo al prodigioso progetto del gruppo piemontese e del regista giapponese sono le voci miracolose e poetiche del delirio, della espressività che si avvia su una strada che dovrebbe essere preclusa alla persona comune, agibile, se mai, per il profeta, per il taumaturgico, per il visionario. Chi ha abbattuto i cancelli della “normalità”, spingendo all’improvviso una persona, che fatalmente sarà dichiarata pazza, nel campo aperto della ragione senza limiti, dunque “squilibrata”? Proprio mentre un gruppo di malati e di sani, nel bosco di Racconigi, racconta con voci sussurranti, voci di creature domate, voci urlanti di impulso di libertà, voci da tranquillante, voci del dopo-malattia in cui si ritorna opachi come tutti i sani, un gruppo di psichiatri napoletani (Claudio Putrella, Enrico de Notaris, Francesco Blasi) dedica alle voci della follia che diventano teatro un libro Psicodramma furto del pensiero (Edizione “Lettere italiane” pagg. 170, lire 24 mila), e anche i testi di alcune loro sperimentazioni, azioni teatrali come territorio di incontro e sprazzi di rivelazione. Anche per i tre psichiatri napoletani il fascino deriva dal mistero delle voci, dalla loro impenetrabile poeticità, che non può essere interpretata, ma che non può rinunciare a dire. Essi parlano, citando anche altri autori, di “lirismo schizofrenico”: “un insieme di libertà formale, rilassatezza semantica, astrazionismo ermetico,contiguo alla poesia vera”. Vedono nella rottura della simmetria (il prima e il dopo, il sopra e il sotto, il grande e il piccolo, la causa e l’effetto, la parte e il tutto) il punto di esplosione del male. “ Subentra – dicono – una casualità psicologica i tipo animistico, una identificazione tra causa e colpa, responsabile della inesorabile incombenza dell’universo…”. Si è rotta la simmetria, non è il reclamo o l’imposizione che può servire da cura per il ritorno alla realtà. Ma un percorso più dolce, quello della “complementarietà”, che permette al medico di stare accanto al malato in posizione non violenta. Costruisce uno spazio neutro per un aggancio senza conflitto. Il gruppo teatrale di Gamna e Miyazaki ha raggiunto le “voci erranti” lungo un altro percorso: accettare la misteriosa poeticità delle voci e farle ascoltare. I testi sono tutti di malati o ex malati che scorrono lungo i due momenti chiave: da dove si entra nella malattia, per quanto sia imperfetto il resoconto della memoria. E il punto di resa, di sconfitta, in cui non c’è che un muro. Oppure la cura, come vacanza tranquillante, la cura dove piano piano si spengono la malattia e la persona. Spesso, nello spettacolo teatrale, i malati cambiano testo. Non ripetono mai la stessa versione. E’ una strategia di rappresentazione, non di cura. In questo i due progetti, del teatro Cantoregi e degli psichiatri napoletani, sono diversi. Li unisce una cultura che non è maggioritaria in Italia, ma che continua a guadagnare un po’ di terreno, quello dell’attesa e del rispetto, sul bordo del mistero. Furio Colombo Articolo di Silvia Francia tratto da “La Stampa” Il grande successo di “Voci erranti” del Progetto Cantoregi La follia diventa spettacolo Lavoro corale sugli ex “matti” L’applauso sembrava non finire mai. Dire che l’accoglienza riservata dal pubblico allo spettacolo “Voci erranti”, che l’associazione Progetto Cantoregi ha presentato al Garybaldi di Settimo, è stata calorosa, non rende l’idea. Sotto una finta nevicata, partita dal palcoscenico per imbiancare tutta la platea, la commozione del pubblico era quasi palpabile. E non senza ragioni. Anzitutto, un tributo caloroso ad un allestimento riuscito, suggestivo e poetico. Ma anche un riconoscimento al lavoro svolto dal team di Cantoregi, gruppo che dal ’77, anno della sua fondazione a Carignano, ha prodotto, contando solo su attori non professionisti, spettacoli-evento di qualità artistica non certo “amatoriale”, sempre centrati su temi sociali. Merito anche dell’anima del gruppo, l’ex regista RAI Vincenzo Gamna e dei suoi “fidi collaboratori”, il regista giapponese Koji Miyazaki e Marco Pautasso, responsabile del personale di un’azienda ma “teatrante ad honorem” per lunga militanza. Un triunvirato inossidabile, che guida Cantoregi con passione ,riuscendo a far miracoli con poche risorse finanziarie:fatta eccezione per sporadiche sovvenzioni pubbliche, il Progetto si autofinanzia. Questa volta, il gruppo, specializzato in lavori corali con cast numerosi (nel ’95 con lo spettacolo “Nebbia” portò in scena i 150 abitanti di un quartiere di Carmagnola), si è cimentato con il tema difficile, della malattia mentale. Il lavoro, che ha visto la luce l’estate scorsa nell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi, è nato da un lavoro laboratoriale svolto proprio con alcuni ospiti di quella struttura. E dieci di loro, oltre ad alcuni infermieri, figurano nel cast della messinscena, che rievoca, senza troppo concedere alla retorica, quel mondi di torture e storture, letti di contenzione ed elettroshock, docce gelate, pasti brodosi, ricordi da rimuovere, crisi epilettiche, solitudine e nostalgia. Elementi di un grande collage del dolore e della “diversità” che, nello spettacolo, si trasforma in movimenti corali e quasi coreografici, in un canto collettivo di disperazione e, forse, di riscatto. Dal coro affiorano, come in una “Spoon River” dell’emarginazione, voci solitarie che raccontano storie (vere) di ex degenti del manicomio: un uomo che non sa di aver ucciso la madre e le scrive lettere piene di nostalgia, una sposa che il marito voleva “vergine e madre” e che da “madonna”si è trasformata in puttana etilista, ragazze che oggi hanno 30 anni e furono rinchiuse quando erano bambine. Emergenze di dolore che non hanno bisogno, per essere teatralmente metabolizzate, di grande supporto scenografico: bastano un letto di ferro, un fondale bianco, un corteo di candele. Silvia Francia Articolo tratto da “Il nostro tempo” Racconigi: Spettacolo con ospiti dell’ex O.P. Questa sera si recita nel vecchio manicomio Esiste una tipologia di teatro che ha il raro dono di ricercare la verità senza che la “finzione” scenica si sovrapponga all’autenticità. E’ il caso del Progetto Cantoregi, che dal 15 al 19 giugno scorso ha allestito nel rigoglioso parco dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi “Voci erranti”, una proposta teatrale di Vincenzo Gamna, Grazia Isoardi, Marco Pautasso e Koji Miyazaki,che ha curato anche la regia. Lo spettacolo è frutto di un’intensa attività laboratoriale, vissuta a stretto contatto con alcuni degli ospiti delle comunità dell’ex O.P. del comune piemontese, con la volontà di sconfiggere il silenzio e l’indifferenza che circondano spesso la realtà del disagio mentale. E questo atto di solidarietà di alto significato civile e morale, volto a restituire voce e dignità a quel mondo di esclusione e reclusione, non poteva che essere rappresentato nell’ex manicomio, luogo simbolo di quelle sofferenze, coerentemente con il percorso artistico incentrato sulla testimonianza e sulla memoria che il Progetto Cantoregi porta avanti in modo ammirevole da più di vent’anni. Accanto agli attori della compagnia, tra cui le ormai storiche figure di Dino Nicola e Orazio Ostino, sempre straordinari, recita una decina di ospiti delle comunità. Il rito si consuma in un’arena circolare, delimitata da panche bianche, tra il profumo intenso degli alberi e dell’erba: e per quella magia che è propria degli spettacoli all’aperto, la prima a esibirsi è un’ignara lucciola che vaga qua e là, errante come le voci dei protagonisti dell’atto teatrale. Gli attori, vestiti di bianco, sono seduti di fronte al pubblico su una piccola gradinata. Hanno segni bianchi e rossi sui visi, a suggerire la similitudine tra comunità psichiatrica e riserva indiana. Magnifici e di intensa valenza simbolica gli effetti teatrali: per tutta la durata dello spettacolo da una pompa fuoriesce dell’acqua, che ricopre progressivamente l’intera superficie dello spazio scenico. Quando le luci si attenuano e sale dal basso del fumo, i malati che su muovono lenti sembrano immersi in un’inquietante atmosfera infernale, mentre quando ballano, accompagnati dalla canzone “Dancing sotto il mare” tratta dall’ultimo disco di Ivano Fossati, all’improvviso esplodono due stupefacenti cascate di fuochi artificiali che si riverberano sullo specchio d’acqua. I quadri si susseguono con lo stesso ritmo lento e inesorabile che scandiva la giornata dei degenti. Nove testimonianze di dolore, isolamento e solitudine si alternano a scene collettive di forte coinvolgimento emozionale: dall’ossessiva ripetizione di nomi di malattie mentali alla disumana freddezza delle norme che regolavano la vita all’interno del manicomio, dall’elenco delle provviste annuali necessarie alla comunità all’indicazione delle terapie (getti d’acqua, psicofarmaci, elettroshock, lobotomia), dalla distribuzione di cibo alla somministrazione delle medicine, dove la suora, che dispensa bianche pastiglie ai malati in fila, sembra fissata nell’atto sacerdotale di una laica eucaristia. La sofferenza è il denominatore comune di tutte le storie, raccontate ora in italiano ora in piemontese: c’è il ragazzo che ha tentato innumerevoli volte il suicidio, la donna che si rifugia nell’alcool e nella follia per la pazzia del marito, il poetico Berretta che non si toglie mai il cappello perché ha paura che la morte entri dalle orecchie, traumatizzato dallo spaventoso fragore della guerra e dei bombardamenti, il malato rimasto bambino che scrive strazianti e inascoltati appelli alla madre; e c’è la ragazza che sente le voci, identificata in Giovanna d’Arco per spingere a riflettere su quanto spinosi siano i confini che separano normalità e patologia, e su come le stigmate della diversità, anche nel caso di figure eccezionali, abbiano sempre portato a processi di rifiuto e di rimozione da parte della società. Chiave di lettura di tutti i casi sembra essere l’affermazione di una delle degenti: “La mia malattia è un mistero. Un mistero conosciuto solo da Dio”. Erika Monforte Articolo di Monica Leonardini tratto da “La Stampa” Attori in cerca del paradiso La Stampa-Torino, 31 agosto 2000 La vecchiaia secondo il filosofo e la vecchiaia secondo gli utenti di un Centro Incontro Anziani. Sara’ poi tanto diversa, la percezione di questo estremo segmento della vita, a seconda che a farne esperienza sia un pensatore come Norberto Bobbio oppure un <> qualunque, nella fattispecie uno di quelli che frequentano un centro ad hoc di Racconigi? Una domanda implicita, che sembra giustificare la formulazione secondo la Compagnia Progetto Cantoregi, che ha allestito <> di Bobbio: lo spettacolo, realizzato con lo Stabile torinese e inserito nel progetto che celebra il decennale della pubblicazione del saggio, e’ in cartellone al Maneggio Reale della Cavallerizza per questa sera e domani alle 20,45, domenica alle 15,30. Gli autori Vincenzo Gamna e Marco Pautasso e il regista giapponese Koji Miyazaki, sono partiti proprio da indicazioni e illuminazioni del celebre testo e da concetti come quello della <>, per coinvolgere nella riflessione un gruppo di anziani, che interpretano lo spettacolo, con l’attore Giovanni Moretti. Gli anziani raccontano se stessi, dunque, in un percorso rappresentativo che non e’ solo esposizione di temi ricorrenti – indigenza, solitudine, memoria, malattia – ma anche un tentativo di guardare molto da vicino l’angoscia della fine, insita nel nostro destino di mortali. Centrale, nello spettacolo, la tesi che oggi piu’ che in passato <>, una condizione indotta da una societa’ che misura il comparto <> secondo criteri di razionalita’, efficienza e consumo. Parametri rigidi, che non lasciano spazio all’ascolto. Sicche’ ai vecchi, via via che imbiancano, non restano che rigidi binari sgangherati su cui incanalare quel che resta delle loro traiettorie di vita. Monica Leonardini